14. Una innata curiosità intellettuale
Corradi: Tu mi hai anche raccontato che ti informavi del centenario della nascita o del centenario della morte di questo o quel grande artista, ti andavi preventivamente a documentare e quando mancava qualche settimana al cadere dell’evento offrivi l’articoletto che talvolta veniva pubblicato senza compenso, e tal’altra ti consentiva di guadagnare il cosiddetto argent de poche.
Verdone: Questo avveniva nei primi anni di gioventù, quando vivevo a Siena ed ho avuto i primi contatti con le pinacoteche, con i musei. Fino alla seconda guerra mondiale (1939-1945) o per ragioni economiche personali o per la difficoltà di ottenere visti, passaporti ecc., ben pochi di noi viaggiavano fuori Italia, e si sapeva ben poco di quello che succedeva all’estero. Ma subito dopo la fine della guerra (1945), apertesi le frontiere, io cominciai a viaggiare. Ebbi la fortuna, attraverso il tipo di lavoro che avevo scelto, di potermi recare spesso a Parigi, perché mi ero inserito nell’UNESCO e in altre organizzazioni, ero chiamato dagli Istituti Italiani di Cultura all’estero, andavo ai Festival, venivo inviato a scegliere i film per la Mostra di Venezia nei Paesi più lontani e devo dire che ogni mio viaggio era una occasione di studio di opere d’arte. Trovavo sempre le ore per dedicarmici. Dato che i film me li mostravano nelle sale di proiezione delle case cinematografiche o degli enti di Stato o degli Istituti di Cultura, nelle ore libere io non mancavo di fare le mie visite ai musei, alle gallerie locali, e anche agli studi degli artisti. Ogni viaggio era una nuova conoscenza che acquisivo e questo si può del resto anche desumere da quel mio libro intitolato Diario parafuturista nel quale ogni capitolo è dedicato a un personaggio e a una città diversa. In tale libro ho trattato dei miei incontri con Lajos Kassak, che è considerato il capo dell’avanguardia pittorica e poetica ungherese, ho parlato di John Heartfield, che è uno dei pionieri, uno dei maestri dell’arte del fotomontaggio, ho parlato di futuristi scoperti in musei argentini, portoghesi e spagnoli: Pettoruti, che visitai nel suo studio a Parigi, Seji Togo, il futurista giapponese di cui contemplai le opere in un museo di Tokyo. Quando parlo di “scoperta” mi riferisco a ciò che poteva essere noto ad altri, ma che al tempo diventava tale soprattutto per me.
Corradi: Ma allora se si volesse esporre il metodo autodidattico che hai seguito per farti questa cultura si dovrebbero porre in evidenza alcuni elementi essenziali. Intanto non è stato intenzionale, ma è stato dettato sempre e soltanto dalla tua pura curiosità intellettuale. D’accordo che inizialmente avevi come vicini di casa i grandi artisti di Siena e le loro opere, anche a breve distanza da casa tua, ed è certo che quando si accostano veri maestri si è molto influenzati da loro. Però io direi che hai cominciato avvicinandoti ai grandissimi maestri senza conoscere quasi nulla di loro, poi ti sei, su alcuni, uno per volta, documentato in maniera approfondita per fare quei tali articoletti con cui ti guadagnavi l’argent de poche. Dopo di che, quando hai potuto viaggiare, cioè eri tu che andavi a visitare musei di città estere o ad incontrare gli artisti nei loro studi, sia in Italia sia all’estero, mi sembra che il tuo maestro, cioè quello che ti ha condotto per mano, è stata quasi esclusivamente la tua curiosità di apprendere, curiosità di capire, curiosità di vedere. O sbaglio?
Verdone: La mia prima educazione all’arte mi è venuta indubbiamente dalla città dove sono cresciuto, non da insegnanti: è a Siena-città, nel suo insieme, che io debbo la mia educazione estetica. Semplicemente guardando le opere ho sviluppato l’abitudine a distinguere, a riconoscere, a trovare le differenze e via dicendo. Questa è stata la mia scuola. Una scuola che è arrivata a me senza neppure l’aiuto di un docente, perché quando io facevo il Liceo, di storia dell’arte se ne faceva un’ora alla settimana e il bravo professore che ci insegnava si limitava ad additarci sul libro di testo qualche riproduzione di grandi quali Michelangelo o Raffaello, ma niente di più. Per questo non posso dire di aver avuto un maestro di storia dell’arte. Imparavo da me, guardando le cose. Indubbiamente se avessi avuto un maestro di grande dottrina mi avrebbe detto qualcosa di più, mi avrebbe consigliato, mi avrebbe guidato. Però la realtà è stata che io cercavo da me. Questo è fuor di dubbio. Ecco perché è giusto dire che io - almeno in questo campo - sono autodidatta, documentato però su fonti serissime. E questo mio iter formativo è stato un po' diverso da quello del mio amico Piero Sadun con il quale discutevamo, vedevamo insieme le opere, ecc. Sadun aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti, poi a Firenze aveva studiato con Primo Conti, aveva avvicinato maestri fiorentini, era legato da amicizia con un grande critico come Cesare Brandi. Indubbiamente quello che Brandi ha insegnato a Sadun ha avuto il suo peso e io non ho avuto nella stessa misura questo privilegio, anche se magari Cesare Brandi era mio amico, anche se andavamo a cena tutti insieme, a spettacoli insieme, però non era quello il momento istituzionale in cui il maestro fa lezione e il discepolo apprende. Tutto si coglieva attraverso le conversazioni o magari si andava insieme alle mostre, le prime mostre che si vedevano a Roma dopo il 1945: e fu allora che mi interessai vieppiù alle tre “S”: cioè Scialoja, Sadun, Stradone, detti anche, per voluto paradosso, i tre pittori “fuori strada”. A loro si aggiunse, in una mostra a Firenze, anche Salimbeni.
Ma un arricchimento di queste conoscenze lo ebbi proprio, come ho detto più volte, per i viaggi che facevo: direi che in ogni viaggio io facevo - per me personalmente - qualche scoperta; non intendo le scoperte di cose nuove; no, io parlo delle mie scoperte personali, di cose che io ancora non sapevo, e di scoperte ne ho fatte infinite. Trovandomi a Mosca, nonostante i divieti e gli ostruzionismi, sono riuscito ad andare nella casa di Majakovskij e ho visto come era la sua casa, i libri che possedeva, anche in altre lingue, le opere d’arte sue e dei suoi amici. Ecco, questo già costituiva un mio arricchimento, incominciavo a conoscere qualcosa di più dell’arte russa dell’epoca sovietica. Me ne andavo a Parigi, dove mi recavo frequentemente, e lì eccomi nello studio di Léopold Survage a discutere con lui dei suoi quadri e del “ritmo colorato”, quadri che io per primo ho rivalorizzato. Sono andato a casa di Emilio Pettoruti, pittore argentino che aveva uno studio a Parigi, e con lui abbiamo discusso dei suoi rapporti con i futuristi, della sua amicizia con Soffici; addirittura mi mostrò una collezione della rivista fiorentina “Lacerba” e mi disse: «Vedi, è rilegata con le carte disegnate da Ardengo Soffici per una ditta di carte stampate». Erano tutte nozioni, anche spicciole, che, raggranellate qua e là, arricchivano le mie conoscenze preesistenti e vi si integravano. Quando poi sono andato anche in Paesi come Cuba, sono riuscito a pescare l’unico pittore futurista italo-cubano, ormai cieco, che viveva a La Habana (e che ora è morto) e che si chiamava Mauricio Pogolotti. E nei viaggi avvenivano le “scoperte” dei triestini-sloveni Cernigoj e Bambic, del ricordato Teschner e di altri scomparsi o non contemporanei: il cèco Lada, lo svizzero (ma del secolo XVIII) Du Cros… A Beaune (Francia) mi sono interessato a Marey, un anticipatore della fotodinamica, visitandone accuratamenete il Museo.
Corradi: Di Pogolotti mi ricordo, perché dopo la sua morte tu hai scritto un bell’articolo, e Isabella Madìa, in occasione di un viaggio a Cuba, è andata a La Habana, ha cercato la sorella, che vive molto modestamente, e le ha portato il tuo scritto, che l’ha commossa.
Verdone: E così nei viaggi in Spagna. In Portogallo ho scoperto -per me - Almada Negreiros, che è il maggiore pittore futurista portoghese; non l’ho conosciuto personalmente perché era ammalato; però fortunatamente in un Festival organizzato, mi pare, dal CIDALC, e dove si davano film sull’arte, vidi una sua lunga intervista in un documentario a lui dedicato, per cui seppi molto della sua vita, della sua opera, dei suoi contatti con i futuristi. Poi, tornato a Roma, gli scrissi subito per allacciare una corrispondenza, per avere altre notizie, e mi inviò la sua commedia Pierrot e Arlequin; ma purtroppo era ormai in condizioni di salute pessime, presto morì, e quindi non riuscii ad avere un contatto diretto, anche se gli avevo già dedicato un articolo. Ricordo che sul “Corriere della sera” parlai di lui dopo la sua morte.
Allorché scrissi di Almada, credo che fosse assolutamente sconosciuto a tutti i critici d’arte italiani questo personaggio che invece era il fondatore del movimento futurista in Portogallo. Fra le conoscenze che mi hanno arricchito c’è stato - come ho già detto - quella di Arnaldo Ginna, conosciuto e frequentato a Roma, e che passava l’estate a Foglia, non lontano dalla mia casa di campagna a Cantalupo in Sabina. Andavo spesso a trovarlo e fu con lui che cominciai a capire i contatti fra lo spiritualismo dei primi del secolo, gli studi degli occultisti, l’arte pittorica astratta, e riconobbi che i primi quadri astratti in Europa li aveva dipinti proprio Arnaldo Ginna, anche prima di Kandinsky. Questi, per esempio, erano dati che diventavano di valore critico, che io acquisivo di prima mano, e poi li riversavo nei miei articoli per lettori che spesso rimanevano stupefatti perché non avevano pensato ai rapporti fra occultismo e futurismo. Tali rapporti li ho sottolineati fin dal mio primo libro Cinema e letteratura del futurismo dedicato ad Arnaldo Ginna e Bruno Corra, libro scritto verso il 1967-1968. Oggi quei paragrafi si sono sviluppati in un testo - a più mani - di ottocento pagine per la mostra, già citata, Okkultismus und Avantgarde von Munch bis Mondrian 1900-1915 organizzata da un Comitato Scientifico internazionale di cui ho fatto parte e che è stata tenuta alla Galleria Nazionale di Frankfurt am Main, nel 1995.
Altre scoperte, ad esempio, le ho fatte a Gorizia. Avevo la fortuna di avere uno studente, Jacki Renner, a me molto affezionato, che mi volle portare in Slovenia a Lipiza, a conoscere un artista importante, Augusto Cernigoj, nato a Trieste, ma piuttosto orientato verso il mondo sloveno. Lipiza è attualmente in Slovenia.
Corradi: Lipiza è quella città famosa per i cavalli lipizzani?
Verdone: Esatto. Renner, che venne in gita con i suoi genitori, mi portò anche a visitare i luoghi dove si allevano questi cavalli. E lì conobbi anche Milko Bambic, un altro triestino orientato verso il mondo sloveno che volle che visitassi una sua mostra a Idrjia. Comunque, è ora inutile enumerare tutti questi personaggi. L’interessante è che, o scoprendo per me i quadri futuristi di Taj Kambara e di Seji Togo a Tokyo, o vedendo le opere di futuristi giuliani, sia italiani che sloveni, o vedendone altri del mondo europeo (per esempio visitando Lajos Kassak, a Budapest), americano, ecc., insomma la cultura mia si approfondiva in questo campo ed ero in grado di riconoscere ormai tanti artisti che ad altri erano ignoti.
Corradi: Si può dire che la tua conoscenza in materia d’arte è stata acquisita prevalentemente sul campo e di primissima mano; con gli autori, con gli artisti che erano viventi e che tu hai comunque voluto conoscere. Quando possibile, hai cercato sempre di raggiungerli e di parlarci personalmente. Ho notato, di recente, un tuo scritto nella rivista “Terzo occhio”: Aspetti del modernismo brasiliano degli anni Venti, sul quale ti sei documentato nel 2000 durante una permanenza a San Paulo.
15. I quadri di Sciltian
Verdone: A volte ho avuto fortuna, ma la fortuna è anche favorita da un certo naturale intuito. Per esempio, devo aver raccontato in altra occasione che quando avevo fatto amicizia con i coniugi Sciltian, spesso essi lamentavano la perdita di alcuni quadri dipinti a Roma, che nelle monografie, cataloghi o biografie dovevano venire riprodotti attraverso vecchi ritagli di giornale perché gli Sciltian non possedevano più le fotografie dei dipinti e neppure sapevano dove fossero gli originali. In un viaggio a Parigi decisi una volta di andare a visitare un museo poco noto, dedicato alla pittura armena. Nel museo i quadri erano accatastati come in uno studio disordinato: c’erano moltissime opere, alcune interessanti, altre meno. A un certo momento, proprio attaccati sul ciglio del soffitto, ho visto i tre quadri che Sciltian rimpiangeva, ne ho riconosciuto la mano, e così ho potuto avvisare la moglie, poiché egli nel frattempo era morto. Elena Sciltian finalmente ha saputo dove questi quadri erano finiti e li ha fatti fotografare. Quindi c’è stata talvolta una certa fortuna nell’avvicinare alcuni artisti, nello scoprire, e devo dire che questa mia, chiamiamola così, facoltà rabdomantica di trovare opere considerate perdute, l’ho sperimentata più volte. A me è successo di ritrovare una scultura a cui Raffaello Salimbeni teneva molto e che non sapeva dove fosse finita.
Corradi: Tu hai già raccontato in un’altra intervista il ritrovamento del busto fatto da Prampolini a Vasari. Mi riferisco alla statua in bronzo chetieni nel tuo studio. Ma c’è un altro ritrovamento che tu non hai raccontato ed è quello della statua di Salimbeni, di quel ritratto in bronzo che adesso è sul tuo terrazzo. Come è andata?
16. Il detective del futurism
Verdone: Il ritrovare opere è forse dovuto a una certa qualità che non è né di ordine critico né altro, ma forse rabdomantico, da detective. E poi, come tu stessa mi ricordi, diceva Napoleone: «Io non voglio attorno a me Generali bravi, voglio Generali fortunati». In molti casi posso dire di essere stato fortunato. Spesso ho rintracciato documenti considerati perduti, disegni, scritti di futuristi e ciò è avvenuto più di una volta. Ho ritrovato opere d’arte che non si sapeva più come recuperare. Racconterò qualche caso. Uno fu quello del mio amico Raffaello Arcangelo Salimbeni, che lavorava spesso a Pietrasanta in laboratori frequentati dagli scultori e dove aveva lasciato una scultura in terracotta, un ritratto dedicato aLorenzo Ercole Lanza, nostro comune amico di Siena, di cui ho parlato in altra occasione. Salimbeni, ormai chiuso in casa, semi-paralizzato, impossibilitato a viaggiare, mal ridotto di nervi, era incapace a ritrovarla. Voleva recuperarla, mio tramite, con la promessa di lasciarmela. Mi dette tale incarico sapendo che io andavo spesso in villeggiatura con la famiglia a Forte dei Marmi. Ci portavo i bambini e ogni volta, per quattro o cinque anni, andando a Forte dei Marmi seguivo varie tracce per ritrovare questa statua, ma invano. Finalmente un giorno trovai l’informazione giusta e arrivai in cima a una montagna delle Alpi Apuane, in una località che si chiama Peralla, o Peralta, dove aveva lo studio una scultrice straniera, certa Fiore, che avevo conosciuto a casa di Lorenzo Ercole Lanza. Arrivando nella sua casa, nel suo giardino (ma lei era assente, era partita per Londra) finalmente vidi in mezzo alle foglie, nel parco, come un dio dei boschi, il busto in bronzo di Lorenzo Ercole Lanza che avevo cercato per anni. Allora trionfalmente scrissi a Raffaello che lo avevo ritrovato. Mi scrisse: «Cerca di fartelo restituire, perché quello non è suo, ma è mio, e se riesci ad averlo tienilo tu». Ritornai alla carica con la scultrice, ma ci volle del tempo per convincerla a restituire la statua fino a che poi essa mi fu restituita attraverso un altro artista che viveva a Roma e che fece da tramite. Questo fu uno dei miei primi ritrovamenti da detective.
Un altro è quello che ho raccontato a proposito di Sadun che aveva, durante il periodo partigiano, fatto circa cinquanta disegni della Resistenza e dei Partigiani. Questi disegni, che Piero mi aveva mostrato, ma di cui non aveva mai rivelato ad altri l’esistenza, alla sua morte erano scomparsi. Io ne chiesi notizia ai familiari ma nessuno ne sapeva niente: allora, portato dal mio, chiamiamolo così, “fiuto”, con una sola telefonata rintracciai l’uomo che aveva i cinquanta disegni, quasi lo trovai sorpreso. Mi disse: «Sì, Professore, li ho io, ma avevo intenzione di restituirli». «Va bene, allora li consegni alla sorella di Piero». Così furono restituiti e mostrati per la prima volta al Palazzo Pubblico di Siena, con presentazione in catalogo scritta da me.
Corradi: Assieme ai casi che hai raccontato, della statua di Salimbeni, dei disegni di Sadun, dei quadri di Sciltian, credo che il caso più interessante sia quello della scultura, del ritratto scultoreo fatto da Enrico Prampolini al drammaturgo messinese Ruggero Vasari. Di questo ritrovamento abbiamo già parlato in altra occasione. Tutto questo dimostra che oltre alla perspicacia o alla sensibilità critica, c’era qualche cosa in te che ti portava a rinvenire cose, a riscoprire valori rimasti quasi sepolti, come avvenne per quel marionettista boemo, Richard Teschner, di cui hai già raccontato. Effettivamente debbono essere state le tue innumerevoli escursioni all’estero che ti hanno permesso di conoscere sempre più autori, pittori, e quindi conoscendoli distinguerli gli uni dagli altri e crearti quella capacità visiva che è tipica dei critici d’arte.
Verdone: Certo, un Giulio C. Argan, un Cesare Brandi, o un Federico Zeri, sono arrivati al massimo della capacità di conoscenza, di penetrazione, di riconoscimento di opere, anche se talvolta può capitare che taluno di essi si sia sbagliato. Infatti più di una volta ho rilevato che Argan non aveva capito molto del Futurismo, almeno dal 1918 in poi, il che non è poco dato che solamente il fenomeno dell’aeropittura è un fenomeno di importanza mondiale e non capisco come sia sfuggito a un grande critico come Argan. Ripeto ciò per asserire che qualche volta anche i “grandi” critici hanno commesso grossi errori. Ma questo è normale, e ne ho commessi certamente anche io, che “grande” non mi considero.
Corradi: I cataloghi e le collaborazioni a mostre non sono soltanto quelle che tu hai citato in questa intervista. Mi piacerebbe poterne documentare anche altre.
Verdone: Ovviamente in interviste di queste tipo vengono alla mente tante cose e altre magari le ricordiamo disordinatamente o un po' più tardi. Per esempio, ora, dopo questa lunga chiacchierata, mi sovvengo anche di altre collaborazioni. In una mostra su Enrico Prampolini, presentata pochi anni fà al Palazzo delle Esposizioni di Roma, in Via Nazionale, mi sono occupato in particolare del settore concernente Prampolini e lo spettacolo, Prampolini e il cinema, e ho scritto un saggio nel catalogo della mostra. Altrettanto ho fatto per la mostra che fu tenuta all’Accademia di Francia, a Trinità dei Monti, sul tema Casa Balla e il Futurismo a Roma, e in quella occasione trattai della collaborazione di Balla e di altri futuristi nel campo dello spettacolo e particolarmente nel teatro sintetico futurista. Poi ci sono state molte altre mostre sul Futurismo, specialmente nel 1994 per il cinquantenario della morte di Marinetti. Ho collaborato a mostre sul Futurismo fatte a Roma, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, alla Biblioteca Nazionale di Napoli, a Palermo, Catania, Livorno. Ai convegni di Firenze e di Praga siamo andati assieme.
Un’altra collaborazione che vorrei ricordare riguarda la presentazione di una bellissima collezione di opere grafiche espressioniste. La mostrapartì da Düsseldorf, poi giunse a Siena ed in altre città. La presentai con un discorso anche in un sodalizio culturale di Orosei, in Sardegna e ci venisti anche tu. Fui invitato a scrivere una introduzione teorica sull’espressionismo, sui caratteri che lo distinguevano dalle altre avanguardie: cosa che ho fatto particolarmente volentieri perché, dato che scrivo sempre di Futurismo, questa è stata una buona occasione per dimostrare che le mie conoscenze non si limitavano solamente al Futurismo, ma anche a movimenti stranieri, come, appunto, l’espressionismo tedesco. Il titolo del mio saggio fu: La poetica della deformazione.
Corradi: Mi ricordo quella bellissima mostra. Conteneva principalmente libri dell’espressionismo tedesco, libri già rari in sé perché quando erano pubblicati venivano stampate al massimo due o trecento copie, che poi gli amici si spedivano l’uno con l’altro. Ma soprattutto questi libri sono diventati ancora più rari perché i Nazisti ne hanno fatto fare incetta e li hanno bruciati. Le poche copie esistenti sono diventate rarissime. Nella vostra mostra sulla grafica espressionista c’erano veramente cose eccezionali. Ricordo che il catalogo, per essere presentato in Germania, era stato redatto sia in tedesco che in italiano. Quando la mostra si tenne a Orosei per iniziativa di Nanni Guiso, venne visitata da numerosi turisti tedeschi che si trovavano per l’estate in Sardegna e con sorpresa degli organizzatori, che erano sicuri che del catalogo in lingua tedesca non ne avrebbero venduta nemmeno una copia, ha avuto maggiore diffusione proprio l’edizione tedesca, più di quella italiana. Il catalogo, edito a Stoccarda, è intitolato Expressionismusnell’edizione tedesca ed Espressionismo nell’edizione italiana.
Di recente sei stato il presentatore di altre mostre. Vuoi parlarne?
Verdone: Una è stata dedicata a un futurista di Macerata, che nel 1938-1944 fu aeropittore: Wladimiro Tulli. Contemporaneamente ho preparato un saggio su Pippo Oriani, pittore futurista torinese. Anzi ho fatto recuperare un suo film del 1932 e ne ho curato il catalogo per la Mostra del Film Ritrovato di Bologna. Il titolo del film è Vitesse (Velocità). Mi sono occupato di aeropittori futuristi per una mostra in Portogallo, e di un’altra, a Roma, su Angelo Rognoni e Vinicio Paladini.
Corradi: Abbiamo parlato più volte di una tua attività di critico nel campo delle arti figurative. Hai preparato cataloghi, hai operato in varie sedi, ma mi sembra che sei stato molto attivo non soltanto come organizzatore, ma anche come collaboratore di riviste specializzate di critica d’arte. Ne vuoi parlare?
17. Arti senza frontier
Verdone: Intanto, a Roma, sono stato spesso invitato a collaborare a riviste che uscivano qualche decina di anni fa’, come “Il Margutta”, e lì ho scritto alcuni articoli sia sul mio ritrovamento del ritratto di Vasari, sia sulle pitture dell’armeno Martiros Sarian, ed anche su altri temi. Poi, al tempo in cui mi interessavo molto alle caricature e ai disegni, ho collaborato alla rivista “Didattica del disegno”, diretta da Gaspare De Fiore, un cattedratico della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma. La rivista si stampava a Brescia e vi ho fatto esami abbastanza approfonditi di pittori e disegnatori come Rosa Rosà, Ivo Pannaggi, Arnaldo Ginna, Klee. Ho collaborato anche a una rivista di Milano per diversi numeri, il nome è “Arte 2000”. Dopo queste collaborazioni, negli anni Settanta, sono stato chiamato a far parte del comitato scientifico e redazionale di una rivista autorevole di Roma, che ho già citato altrove, la rivista “Qui arte contemporanea” della Editalia, cui collaborava anche Piero Sadun. La rivista poi è finita. Era una rivista d’avanguardia. Diceva un poeta francese, Pierre Albert-Birot, che «le riviste d’avanguardia devono morire giovani». Dopo questa collaborazione, sono stato invitato a far parte del comitato redazionale della rivista “Terzo occhio” di Bologna. A dire il vero dapprima ho iniziato come semplice collaboratore. Nel numero uno della rivista - ricordo - parlai di un artista tedesco che poi si era trasferito in America, Richard Lindner; poi scrissi anche un articolo su Piero Sadun e i suoi disegni partigiani. Per qualche tempo non collaborai; poi il coordinatore della rivista, Giorgio di Genova, mi ha invitato a far parte proprio del comitato redazionale, partecipando alle sue riunioni periodiche, e da allora la mia attività in questa rivista si è incrementata tanto che ho scritto diverse decine di saggi. In seguito è venuta l’idea, all’editore e a me, di raccogliere tali studi in un libro. Abbiamo fatto l’inventario ed è emerso che la raccolta sarebbe stata troppo voluminosa, perché ormai gli articoli erano quasi un centinaio, non solo, ma anche cospicui per consistenza, tanto che sarebbe stato necessario un gran numero di pagine. Abbiamo deciso di ridurla drasticamente, al cinquanta per cento. Comunque lo spirito, il carattere, di questa pubblicazione è rimasto consacrato nel titolo stesso del libro, e cioè Arti senza frontiere: dove credo si ripetano quelle tendenze, e quei metodi che hanno distinto il mio lavoro critico, non soltanto nel campo delle arti figurative, ma anche nel campo del cinema, del teatro, e via dicendo.
Corradi: Registro, per inciso, che il volume è stato pubblicato dalle Edizioni Bora di Bologna.
Come tu hai spesso detto e ripetuto, non si tratta soltanto di arti senza frontiere tra un Paese e l’altro, ma senza frontiere tra una cultura el’altra, tra una espressione artistica e l’altra, verso quel tuo tema preferito: l’arte totale.
Verdone: Tutto questo, ancora una volta, mi viene dalla mia frequentazione dei futuristi e dal mio studio delle arti nell’area del movimento futurista. Credo di aver già ricordato che nell’Ottocento Charles Baudelaire sosteneva la “corrispondenza” delle arti. Il futurismo ritengo che abbia fatto un passo avanti: non più soltanto “corrispondenze” delle arti, fra pittura e letteratura, corrispondenze possibili, ma addirittura “compenetrazione”: quindi dalla corrispondenza alla compenetrazione delle arti. Un’arte che entra dentro un’altra. Un’espressione che si avvale anche di altre espressioni. Questa è una caratteristica dell’avanguardia, e credo che il maggiore sostenitore ne sia stato proprio Marinetti.
Diceva Giuseppe Mazzini: «Occorre chi rannodi ad un tempo tutte le arti, manca e verrà». Fu anche la divisa del mio amico Arnaldo Ginna, ed io l’ho sempre tenuta presente.
18. Altre mostre di opere futuriste
Corradi: Per quel che riguarda le mostre d’arte futurista organizzate da te o in collaborazione con altri galleristi e colleghi, in Italia e all’estero, illustrate anche da speciali cataloghi, quali ritieni che siano da segnalare particolarmente? Negli anni 2000 e 2001 hai lavorato molto.
Verdone: Alle mostre di cui mi sono occupato in anni precedenti, spesso in compartecipazione con altri esperti e critici, a Roma, Firenze, Milano e Napoli, o individualmente per Acquaviva, Johannis, Benedetto, debbo aggiungere, nell’anno 2000, quella sui disegni futuristi organizzata dalla Galleria Solarte di Roma; quella sull’Aeropittura a Lisbona, collaborando con De Rosa; quella su Alberto Savinio a Budapest (ma qui l’accento era sulla metafisica); quella su Balla, in collaborazione con Renato Miracco per la selezione e il catalogo, a San Paolo del Brasile; quella sul Futurismo in Toscana, a Livorno, anche qui in collaborazione e partecipazione al Comitato Scientifico; e quella, molto ampia, presentata al Palazzo delle Esposizioni di Roma: Futurismo 1909-1944, datazione che io stesso avevo fissato fin dal 1970. La mostra brasiliana fu inaugurata dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, che ebbi il privilegio di accompagnare, e dal Governatore di San Paolo Mario Covas. Il catalogo era trilingue e la mostra destinata a un complesso iter negli Stati dell’America Latina, fra cui Uruguay e Messico.
Nel 2001 ho scritto un catalogo per i bozzetti scenografici di Alfredo Furiga, in una mostra romana, ed ho fatto parte del Comitato Scientifico della mostra “Realismi”, curata da Luciano Caramel e ospitata dal “Meeting dell’Amicizia” di Rimini nei palazzi dell’Arengo e del Podestà. Era dedicata alle arti figurative, alla letteratura e al cinema. Il settore cinematografico era affidato a Luca e Mario Verdone. A Lucera (Foggia) ho collaborato, dopo due manifestazioni indette al Teatro Valle di Roma e alla Pergola di Firenze dall’Ente Teatrale Italiano (ETI), a una mostra dedicata al caricaturista teatrale Umberto Onorato (presentato anche con un mio documentario del 1956: La vita teatrale. Album di Umberto Onorato). Curiosamente, anche Onorato ebbe una marginale attività “futurista”.
In recenti mostre su temi come “Dal futurismo all’astrattismo”, sull’arte italiana degli anni Cinquanta, sul pittore e fotografo Luigi Veronesi, ho contribuito ove con studi critici, ove con opere da me possedute (Sadun, Scialoja, Veronesi). Per una mostra sul Futurismo organizzata a Roma nel dicembre 2002 da Edieuropa (il nome suo, in precedenza, era Editalia) ho prestato opere di Depero, Ginna, Prampolini, Pannaggi.